Parliamo di resilienza quando ci si riferisce alla capacità dell’individuo di riuscire ad affrontare fattori di rischio, gli stress ed i traumi. Quindi la capacità di affrontare le situazioni dolorose e superare i traumi riorganizzando positivamente la propria vita.
Citando una frase di Cyrulnik B. , 2000 “ In situazioni difficili, essere resilienti non significa negare il dolore, ma essere capaci di trasformare una esperienza dolorosa in apprendimento, riorganizzando la propria vita e rendendo tale esperienza una occasione formativa”. Egli (2001) la definisce come una “trama” dove il filo dello sviluppo si intreccia con quello affettivo e sociale.
Boris Cyrulnik ( psichiatra e psicanalista, docente all’Università di Tolone – Francia) nasce a Bordeaux nel 1937. Rimasto orfano in tenera età di entrambi i genitori, fu salvato da una donna ebrea alla quale fece ottenere un riconoscimento alla fine della seconda Guerra Mondiale. Cyrulnik ha dedicato gran parte della sua vita a capire come fanno certi bambini a superare i traumi che hanno subito, i lutti precoci, l’abbandono, i maltrattamenti, la violenza sessuale, la guerra; come questi bambini, sopravvissuti a dolore e vergogna, possono poi diventare degli adulti felici.
Sempre secondo Boris Cyrulnik, la resilienza “è l’arte di navigare sui torrenti. Un trauma sconvolge il soggetto trascinandolo in una direzione che non avrebbe seguito. Ma una volta risucchiato dai gorghi del torrente che lo portano verso una cascata, il soggetto resiliente deve ricorrere alle risorse interne impresse nella sua memoria, deve lottare contro le rapide che lo sballottano incessantemente. A un certo punto, potrà trovare una mano tesa che gli offrirà una risorsa esterna, una relazione affettiva, un’istituzione sociale o culturale che gli permetteranno di salvarsi. La metafora sull’arte di navigare i torrenti mette in evidenza come l’acquisizione di risorse interne abbia offerto al soggetto resiliente fiducia e allegria. Tale inclinazione, acquisita in tenera età, gli ha conferito un attaccamento sicuro e comportamenti seduttivi che gli permettono di individuare ogni mano tesa. Ma se osserviamo gli esseri umani nel loro “divenire”, constateremo che chi è stato privato di tali acquisizioni precoci potrà metterle in atto successivamente, pur con maggiore lentezza, a condizione che l’ambiente, consapevole di come si costruisce un temperamento, disponga attorno al soggetto ferito qualche tutore di resilienza”.
Il termine resilienza è stato ricavato dalla fisica per indicare la capacità di sostenere gli urti senza spezzarsi. In psicologia è “la capacità di riuscire, di vivere e svilupparsi positivamente, in maniera socialmente accettabile, nonostante lo stress o un evento traumatico che generalmente comportano il grave rischio di un esito negativo.(…) Certo, al momento del trauma, la ferita è evidente. Sarà possibile parlare di resilienza dopo del tempo, quando l’adulto, infine riparato, riconoscerà il trauma infantile subito. Essere resilienti non è solo resistere, ma significa anche imparare a vivere. Purtroppo, costa caro. Quando la ferita è aperta, siamo orientati al rifiuto. Per tornare a vivere, non dobbiamo pensare troppo alla ferita. Con il distacco dato dal tempo, l’emozione provocata dal trauma tende a spegnersi lentamente lasciando nei ricordi soltanto la rappresentazione del trauma.
Anaut (Anaut, 2003) sostiene che essere resilienti non significa essere individui invulnerabili, ed inattaccabili dalle emozioni e dalla sofferenza. Certamente la persona resiliente è una persona comune dotata di molte qualità ma che può andare incontro a rotture di resilienza e a depressioni. La resilienza, infatti, non è una caratteristica presente in tutta la vita. Anche per una persona che è dotata di qualità resilienti possono, infatti, esserci momenti , veramente, molto faticosi da sopportare . Ancora Cyrulnik (2001) in linea con Anaut, considera gli individui resilienti come persone che hanno trovato in se stessi, nelle relazioni umane, nei contesti di vita, gli elementi e la forza per superare le avversità.
Non si nasce resilienti, ma lo si può diventare in presenza di avversità come risultato della contrapposizione tra fattori di rischio e fattori di protezione. La resilienza viene vista come un processo dinamico che varia in differenti contesti (Fine, 1991; Flach, 988; Garmezy, 1993; Rutter, 1987, 2007). Richardson (2002) cerca di superare questa contrapposizione rileggendo le due diverse posizioni assunte all’interno del dibattito come due fasi, due “ondate di ricerca”, all’interno dell’evoluzione degli studi sulla resilienza.
Secondo Richardson le qualità resilienti sono presenti in misura diversa in ognuno di noi fin dalla nascita. Queste qualità possono essere diversamente potenziate durante l’arco di vita. La resilienza avrebbe, così, una doppia natura, di tratto, e quindi disposizionale, e di processo.
La resilenza come tratto ( caratteristiche psicologiche).
La resilienza come tratto è stata definita da Wagnild e Young (1993) come “una caratteristica personale che modera gli effetti negativi dello stress e promuove l’adattamento”. Secondo Miller, (1988) la resilienza può essere considerata come una combinazione di caratteristiche fisiologiche e di fattori di personalità. Gli studi si sono focalizzati sull’identificazione di quelle caratteristiche fisiche e psicologiche che consentono all’individuo di superare le avversità.
La resilienza come processo tra fattori di rischio e fattori di protezione
Rutter (1985) ha proposto un modello nel quale resilienza e vulnerabilità erano collocate agli estremi di un continuum e la risposta ad un evento avverso poteva andare a collocarsi in un punto qualsiasi lungo questo continuum. Il tipo di risposta veniva determinato dall’interazione dinamica tra fattori protettivi e il processo interattivo. Secondo l’autore gli effetti dei fattori protettivi erano rilevabili solo in presenza dell’evento stressante e il loro ruolo era quello di modificare la risposta di fronte alle avversità. Il processo veniva descritto come l’interazione sommatoria di una infinità di variabili. Interazione che consentiva la riduzione dell’impatto con la condizione di rischio, lo stabilirsi e il mantenersi di sentimenti di autostima e di efficacia personali e quindi l’apertura a nuove opportunità di vita
Uno dei primi studi sulla resilienza fu condotto da Emma Werner (1992) su neonati dell’isola Kauai (Hawai). Molti di loro avevano una probabilità elevata di sviluppare problemi, a causa di diversi fattori di rischio: nascita difficile, povertà, vivere in famiglie con problemi di alcolismo, malattie mentali, violenza, litigi. Tuttavia, i risultati hanno evidenziato che, all’età di 18 anni, alcuni dei ragazzi cresciuti in maniera adeguata, avviando relazioni stabili, svolgendo attività lavorative ed essendo persone costruttive coglievano ogni occasione per migliorarsi. Quali sono, pertanto, i fattori di protezione che rendono alcuni individui resilienti?
A determinare un alto livello di resilienza contribuiscono diversi fattori. Importante è la presenza all’interno come all’esterno della famiglia di relazioni con persone premurose e solidali. Questo tipo di relazioni crea un clima di amore e di fiducia, e fornisce rassicurazione favorendo, così, l’accrescimento del livello di resilienza. Altri fattori importanti sono una visione positiva di sé e la consapevolezza sia delle abilità possedute che dei punti di forza del proprio carattere. Si affianca la capacità di porsi dei traguardi reali e cercare di raggiungerli pianificando tutto in progress. Avere delle buone capacità di “problemsolving” ed una ottima capacità di controllo degli impulsi.
Focalizzare l’attenzione sulle esperienze del passato e cercare di individuare le risorse che rappresentano i punti di forza personali può essere la strada giusta per la ricerca della strategia più idonea per migliorare il proprio livello di resilienza . Per facilitare l’individuazione delle risorse personali è quello di cercare di rispondere a delle domande:
- quali eventi sono risultati molto stressanti per me?
- in che maniera sono stato condizionato da questi eventi ?
- nei momenti difficili, ho pensato , trovando utile rivolgermi a persone per me significative?
- nei momenti difficili quanto ho avuto consapevolezza di me stesso e del mio modo d’interagire con gli altri?
- è risultato importante per me dare assistenza a qualcuno che stava attraversando momenti difficili come quelli da me sperimentati?
- sono stato capace di superare le difficoltà ed, eventualmente, in che modo?
- che cosa mi ha consentito di guardare con maggiore fiducia al mio futuro?
Lavorare in terapia in un’ottica resiliente significa aiutare le persone a sfruttare le risorse personali e quelle del contesto relazionale e sociale che si trova a vivere quotidianamente. Con un’ottica rivolta al presente con solo uno sguardo al passato ( come esperienza) e proporsi un obiettivo per il futuro.
Nel setting terapeutico le persone hanno tempo da dedicarsi e la possibilità di soffermarsi ad intraprendere la relazione terapeutica significativa per cui concedersi di intraprendere un percorso che li porterà alla scoperta delle doti che hanno ma che non sanno di possedere.
Nessun viaggio è senza ostacoli e questo viaggio è come gli altri, impervio e pieno di ostacoli. Questo servirà a dare consapevolezza di essere capacidi raggiungere l’obiettivo prefissato trovando anche altre vie. I
Dott.ssa Simonetta Sodo
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